IL PITTORE

L'opera scultorea che veniamo d'analizzare, così diversa e numerosa, non sarebbe di per sé già sufficiente a riempire una vita d'artista?

Dei generi pittorici tentati, sole le nature morte sarebbero assenti, se non fosse per l'usanza di accomunarvi i fiori. L'Eplattenier ne ha dipinti molti; i primi con eccessiva fedeltà, facendo uso di tonalità pesanti e disponendoli con scolastica simmetria. Poi si è commosso, ed è passato alla maniera imperativa: il fiore ha smesso di essere regina, è diventato oggetto di viva e libera interpretazione: colori e composizioni audaci, vibrazioni esclusivamente pittoriche. E più l'oggetto scivola nel soggettivo, più il mestiere si afferma. Non più studi, ma quadri: il maestro predomina sullo specialista.

Per i ritratti o i nudi, l'evoluzione è analoga, ma meno sensibile nel tempo. E' che l'anatomista ed il fisionomista, rigidamente addestrati dal disegnatore, hanno avuto meno da lottare contro il nemico interiore, un certo "spirito di sottomissione" ereditario della razza. Certo, bisogna constatare dei ritorni offensivi di realismo formale, di prosaismo: sono più interessanti le pagine "libere", in cui i bei corpi femminili si prestano alle ricerche del pennello, dove le effigi degli uomini partecipano ad una alta creazione dello spirito senza perdere le loro verità proprie.

Ma, nei suoi paesaggi, il cui numero è impressionante, se non ha bisogno di dimostrare la qualità e varietà delle sue conoscenze tecniche, riesce però, meglio che altrove a misurare l'ampiezza del suo animo d'uomo e d'artista.

Ha incominciato con un verismo severo, e con mezzi limitati. Trattenuto tra le montagne dai suoi incarichi, ha dapprima dipinto il Jura, di cui ne ha subito la tristezza e l'abbandono; in "Haut Jurà" (1902), considerato per la veridicità un capolavoro e bel testimone di questo periodo (collezione del Museo di Neuchâtel), l'ha anche interpretato monotono e sinistro, con le nevi sciolte della fine dell'inverno, nere di pino, ocra di pascolo.

A partire dalla primavera del 1904, durante un soggiorno al "Mont Racine", farà prevalere le sue qualità di costruttore e volontario. "Au sommet", che è al Museo di La Chaux-de Fonds, è modellato in potenza e tra i colori traspare qualche calore. Ingrandisce i formati e dieci anni più tardi, Il Temps de Mars, conservato nello stesso museo, è un' opera vasta e sintetica, grigio-blu e bianca, appena livida, e l'enorme "Saut du Doubs" gelato, dell'Esposizione Nazionale di Berna, è veramente una ghiacciaia.

E' di allora il "poema del Doubs", successione di piccoli pastelli, preziosi, rari, opere d'un uomo che il tempo mitiga, mentre e così come gli sconvolgimenti della guerra della vicina guerra rendono visionario. L'occhio ed il cuore si arricchiscono, l'animo che l'arte consola fugge la realtà.

In seguito, piu' libero, amplia i confini della sua contemplazione: scopre le rocce, scheletriche lische emerse dai crinali stepposi, pareti o ampli anfiteatri: "La Tourne, le Creux-du Van, la Montagne de Boudry" lo appassionano al punto che conferisce a ciascuna una propria personalità. Riproduce i dolci pendii delle vigne a "Cortaillod", a "Landeron"; esprime le bellezze dantesche, i freddi crudeli al fondo delle gole dell' "Areuse", disegna le torbiere di "Les Ponts" che, d'estate, per certi versi, ricordano i paesaggi sahariani.

Gli anni passano, delle sue terre ha visto tutto, in ogni stagione, ed espresso le sue visioni in tutte le maniere, sempre ampliandosi, innalzandosi, superandosi, lui e la sua epoca feconda, fino a trovare, in questo Giura, dei soggetti d'esaltazione e degli accenti di vera gioia.

Eppure rimane radicato al realismo. Ha per la terra un amore di geologo, per le rocce una passione di scultore. Rispetta la materia, tratta l'acqua come un elemento fluido, rende diversamente il cielo dal fogliame. Rende omaggio alla realtà, mettendone in risalto diversità e ricchezze, e, imponendone un proprio ordine la traduce in poesia.

Quanto alla tecnica, l'allenamento continuo cui si sottopone la vincola al paesaggismo. Essa non è che l'umile serva dell'espressione cui, per meglio dire, si identifica, e cui appare sempre appropriata, qualunque sia il tema, oltreché essere sempre d'una estrema pulizia.

Da felice virtuoso quale doveva diventare, l'artista tritura i suoi colori e maneggia i suoi pennelli con disinvoltura, trattando, a seconda degli umori, il soggetto e gli oggetti con le più ampie velature a fior di tela o con i più robusti impasti, con le dolcezze e finezze del pennello o con i tocchi imperiosi della spazzola, fino ad arrivare agli asporti di coltello. Divinatore delle bellezze nascoste, L'Eplattenier ha rivelato ai suoi concittadini tutti gli aspetti delle loro terre.

E tale è la sicurezza della sua mano e del suo occhio che, in questa formicolante creazione non ci sono più incertezze, di tentativi dubbi o approssimati, ma solo più certezze. Ogni pagina è un'opera definitiva. Va da sè che tutto segue un ordine prestabilito, e nei suoi paesaggi si distingue facilmente una gerarchia: gli uni si inchinano al pittoresco, gli altri si elevano al grande stile.

Quando il partito preso dal pittore è quello che risponde alle dominanti del suo carattere, quando le pagine sono più sentite che volute, l'artista si rivela profondo e raro; l'uomo supera il virtuoso, è più che un' eco sonora; a seguito di una vigorosa reazione si è convertito all'ottimismo, ma la sua base è una violenza tragica ed appassionata.

Così vario, eppure è uno; tutti i suoi paesaggi, a qualunque genere appartengano, qualunque sia il livello cui li consideriamo, portano tutti il suo marchio: logica, chiarezza, equilibrio. Ed è perché da lui l'homo faber non cessa né cesserà di manifestarsi, fintanto che gli rimarrà un soffio, perché è un decoratore.