Classicità e simbolismo di Alloati
Angelo Mistrangelo

Il cammino dell’arte figurativa appare segnato dall’evoluzione del linguaggio, dall’affinamento dei mezzi tecnici, dal diverso impiego dei materiali che presiedono alla formulazione dell’opera e, quindi, alla concreta definizione del pensiero dell'artista.
Un itinerario che, in qualche misura, appartiene alla stagione di Adriano Alloati, al suo continuo, profondo, vitale impegno per una scultura che gli ha sempre offerto motivazioni, attimi, occasioni per risolvere con meditata volumetria una visione della figura che successivamente ha acquistato una maggiore cadenza simbolista e neofloreale, tralasciando il rigore di una classicità attentamente riconsiderata.
A più di dieci anni dalla scomparsa, avvenuta nell’aprile del 1975, il Piemonte Artistico e Culturale, auspice la moglie Colette, ripropone le limpide cadenze di un « dire » per immagini che s’inserisce nel novero delle esperienze artistiche del Novecento in una dimensione contrassegnata dalla conservazione dei valori plastici, della bella forma, di una struttura mai dissonante o magmatica, ma sempre trattenuta, a volte raggelata, entro i limiti imposti dalla linea che si dispiega lentissima e suggella un profilo di fanciulla o il corpo sinuoso delle Naiadi.
E', la sua, una scultura che emerge da precise connotazioni fisionomiche, come nota Gian Giorgio Massara, o da un «mestiere» che gli ha permesso di risolvere pienamente ogni problema compositivo giungendo a quella concezione del «fare arte» che lo ha guidato per l’intero arco della sua esistenza: «Figlio di uno scultore, aveva imparato», ricorda Giancarlo Marchese, che fu suo assistente a Brera, «la professione fin da giovanissimo e queste sue qualità si riversavano ovviamente nelle sue opere, che tendevano a perseguire un ideale di bellezza proprio in un momento storico che celebrava più volentieri la volgarità...».
Una «professione » ricca di riscontri, di incontri, di occasioni per manifestare il suo interesse per il discorso artistico, per quel ritrovare e ritrovarsi partecipe al clima di una cultura ch’egli andava approfondendo con la quotidiana frequentazione di Achille Funi e di Usellini, nella Milano che annoverava, a Brera, le personalità di Carpi e di Messina, di Manzù e di Marino Marini.
Un itinerario, perciò, che ora si ricompone attraverso l’ampio regesto biografico, le citazioni e quelle recensioni che nel corso degli anni hanno accompagnato un’esperienza che, sin da giovanissimo, non ha mai subito determinanti flessioni. Tutto è composto come in un mosaico: ritratti e delicati nudini, bassorilievi con scene sacre e fanciulle incorniciate da fiori, grandi statue raffiguranti i Dottori della Chiesa e Naiadi per il Cinema Teatro Reposi e lo Zoo di Torino.
In ogni caso la forma assume una propria forza e una diretta intensità, comunica fremiti vitali e sottili inquietudini quasi che Alloati desiderasse trattenere entro la materia un sogno o un desiderio o un emozione.
Questo perché le sue figure femminili hanno, nella pacata risoluzione plastica, un senso di germinante passionalità, subito, però, smorzata, stemperata, annullata nel pudore di un nudo mai volgare o scomposto o plasmato con dirompente espressività.
Alloati riporta ogni frammento, ogni profilo, ogni rilievo a una sorta di misura del vivere, a un preciso rapporto fra l’opera e l’atmosfera in cui si colloca e vive e si propone all’osservazione. La sua vicenda si muove — ha più volte rilevato Roberto Salvini — attraverso «una fase severa, un lungo momento classico e una fase fiorita».
E in questi tre risvolti espressivi si compendia un percorso mai decisamente esaustivo del suo dettato, mai segnato da una tardiva rincorsa alle nuove posizioni creative proposte dalle avanguardie tra le due guerre, mai irrazionale artefice di una scultura priva di una determinante «costruzione»: «Alloati ha sempre proceduto», ha scritto ancora Salvini per la personale alla Galleria I Portici di Torino, nel 1974, «durante la sua ormai quarantennale carriera, per successive modulazioni di uno stile nato sul solido fondamento di una tecnica garantita dalla tradizione, ascoltando obbediente la voce che saliva dall’intimo. Poté così evitare in gioventù la retorica dei tempi come più tardi la tentazione di raggiungere facili successi attraverso ingegnose trovate...»
Ripensare alla sua opera diviene occasione per ripercorrere un’arte concretamente ancorata al nostro tempo, caratterizzata da una ricerca formale, espressione di una natura d’artista che ha veduto «nella struttura dell’uomo un modello della struttura del mondo, nel suo armonioso sviluppo una eco dell’armonia che regola l’universo»; mentre Marziano Bernardi avverte nell’insieme della sua opera, una certa «inquietudine di ricerca linguistica, un più tormentato sbocco di fantasia. Lo provano anzitutto l’insistenza del modellato scabro delle superfici, lo sfruttamento dei residuati e delle scorie di fonderia quasi per materializzare la luce e per dare valore espressivo al procedimento tecnico...».
Nell’ambito delle vicende torinesi, Alloati si colloca in una direzione vicina al «classicismo» di Riva, l’autore della Fontana Angelica di piazza Solferino, e di Terracini, a Umberto Baglioni, artefice del Nudo al sole esposto alla Quadriennale di Torino, e ai nudini di Tarantino, le figure di Audagna e Saglietti.
Una città che, nel versante più squisitamente legato alla scultura, poteva contare sul futurismo di Mino Rosso e sulla esplosiva monumentalità di Mastroianni, passato da una rasserenante figurazione alla dirompente materia delle sue composizioni; sulla tormentata e scavata analisi sull’uomo operata da Cherchi, proveniente dal milanese gruppo di Corrente, e su Piero Ducato e Regosa, la Piccolis e la particolare visione plastica di Casorati, la tormentata lezione di Garelli e la misteriosa modulazione e rivisitazione della materia di Giansone.
Non mancano, ancora, situazioni espressive, non sempre individuate o volutamente studiate, che annoverano i lavori di Comazzi e di Chissotti, di Moscatelli e di Pirastu Usai, di Rambaudi e di Alfo Greco e inoltre il casalese Bagna, la forza in pulsione di Romano, le «pietre» di Lorenzoni, Chiss e Martinazzi che con Alloati hanno esposto alla Quadriennale di Torino del 1974.
In questo panorama si inserisce la sua attività (di Alloati) che, a onor del vero, ha riscosso negli anni ‘60 un notevole riscontro nelle mostre allestite nelle gallerie e nei musei in Germania.
Ritornando alla sua giovanile formazione è possibile ricostruire una realtà e un tessuto culturale in cui Alloati, figlio di Giovan Battista, dal quale apprese l’arte della formatura, si era mosso e aveva «scoperto» una singolare capacità nel plasmare la materia.
Terminati gli studi classici, si iscrisse all’Accademia Albertina e seguì gli insegnamenti di Baglioni, Rubino e Michele Guerrisi, e già nel 1935, alla Mostra di pittura, scultura, bianco e nero, scenografia, architettura dell’Albertina vinse il primo premio per il Calvario di Scimula: «un pezzo di scultura, che fin da oggi fa onore alla scuola da cui esce... conviene che il pubblico visiti queste sale dell’Accademia e giudichi (sia pure tenendo presente che si tratta di saggi di gente che ancora impara) l’impegno, la generosità, la capacità di questi ragazzi» (Marziano Bernardi, in «La Stampa», 3 marzo 1935).
Un esordio certamente ricco di prospettive, che l’anno seguente venne confermato con la presenza alla sociale della Promotrice dove il gruppo in gesso Legionari fu premiato ex aequo con l’opera di Luigi Spazzapan e, contemporaneamente, l’acquisizione da parte della Città di Torino di Maternità per la Sala di Accettazione del Reparto Maternità del nuovo Palazzo d’Igiene: «una scultura», scrissero su « Stampa Sera» del 28 ottobre 1936, «che non vogliamo dimenticare sia perché è opera di un giovane, sia perché la concezione del soggetto e la larghezza con cui è modellata meritano un particolare cenno...».
Due anni dopo gli venne assegnata, per Concorso, la Cattedra di Scultura Ornamentale, presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, che terrà sino al 1950. Successivamente insegnò all’Accademia di Brera. In quello stesso 1938 partecipò alla XXI Biennale di Venezia con il delizioso bronzo Piffolina, acquistato dalla Banca Popolare di Novara.
Si annoverano, negli anni seguenti, significativi riconoscimenti come il Premio Raymond alla Promotrice e il Premio Querqui al Circolo degli Artisti di Torino.
Nel 1942 una sua personale venne allestita nell’ambito della Biennale veneziana, a cura di Antonio Maraini, e l’opera Adolescente in riposo (1941) fu acquistata dal presidente dell’Ente S. E. Volpi di Misurata.
Di quel periodo sono opere quali il Monumento a Francesco Azzi ad Imola e, sul «Corriere Padano», Michele Campana evidenziò la robusta struttura della «statua bronzea, che si aderge sopra un blocco cilindrico di marmo di Ghiandone della Valle Roja».
Soprattutto è stato più volte sottolineato l’invito alla Biennale in una serie di recensioni che ponevano in risalto il suo lavoro: «il bronzetto di Adriano Alloati, dalla Modellatura pura, fermissima» (M. Bernardi) e «I giovani... Alloati... partecipano con opere di vario valore ma tutte degne di essere attentamente studiate alla gara per il ritratto» (E. Zanzi).
Come si può notare, sin dalle prime esposizioni Alloati si segnala per la qualità della sua scultura, del suo ricercare l’armonia delle forme come per il grande Crocefisso realizzato, per l’edicola Arturo Cereser al Cimitero Generale di Torino, nel 1940. Ugo Pavia, su «La Stampa» del 2 novembre, richiama l’attenzione sulla «nobile compostezza» dell’opera, che appare modellata «con bella vigoria», mentre «indovinato è l’abbandono prodotto dalla morte che si nota non solo nel capo dell’Uomo-Dio dolcemente reclinato su di una spalla, ma nel torso e nelle membra studiate con amorosa cura».
Dopo aver partecipato alla lotta partigiana nel Corpo dei Volontari della Libertà, Alloati espone a Santa Margherita Ligure, nel 1952, in una personale che rinnova l’impatto con la sua volontà di esprimere un naturalismo contrassegnato dall’impianto del Nuotatore e dalla Donna che cammina, dalla Giovinetta che si tocca i capelli e dalla Bambina, in una purezza di linee legata al semplificato plasticisimo dei piani e dei volumi che concorre a definire un’espressione in cui «i nudi e i ritratti non sono inappuntabili e perfette imbalsamazioni di terracotta o di bronzo. Sono forme vive», suggerisce Emilio Zanzi in catalogo, «anche nell’immobilità e nel silenzio. Sono — e dobbiamo essergli riconoscenti — forme equilibrate e tranquille nate — quasi per prodigio — in un mondo incrudelito e implacato dalle ferocie della guerra... ».
Invitato alla Biennale di Brera e nel 1954 alla Promotrice con la terracotta Ritratto di Sicbaldi, acquistato dal Municipio di Torino per la Galleria Civica d’Arte Moderna, Alloati ha poi partecipato alla Quadriennale torinese del 1955, con il Ritratto del pittore Chicco, all’VIII Quadriennale di Roma del 1959, alla Mostra del Secondo Risorgimento al Piemonte Artistico e Culturale di Torino nel 1961. Nel 1964 eseguì sei grandi statue, raffiguranti i Dottori della Chiesa, in marmo di Zandobbio, per la chiesa di San Paolo ad Alba.
Il 1966 è, senza dubbio, denso di avvenimenti sfociati nelle personali alla Galerie Mouffe a Parigi, alla Galerie d’Eendt ad Amsterdam e alla Galerie Laubli a Zurigo, con testi in catalogo di Roberto Salvini e Luigi Mallé. Quest’ultimo, direttore della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino, rileva i risultati di un presupposto espressivo contraddistinto da una «nuova castità formale che placa qualche brivido persino espressionistico in limpidezza strutturale e in dolcezza di sentimento tipici del più riflessivo, semplificato (ma interamente ricco d’allusioni) classicismo novecentesco, se la terracotta dell’Adolescente in riposo, del 1942, ripropone quasi la sensualità dei turbamenti segreti, appena sfiorati, d’un rilievo del tardo ellenismo, con un notevole equilibrio tra fisicità trepida e purificazione idealistica...».
Sedute e in piedi, in movimento e distese, le donne di Alloati appaiono pervase da un senso di sospensione psicologica che si identifica con quei visi appena sfiorati da un sorriso, dalla incompiutezza, voluta, di certe teste che ancora conservano parti del montaggio, della struttura di formatura, che si innerva a sostenere la Testa di Naiade del 1960 e il ritratto di Antonella del 1972.
La rugosità delle superfici, la delicatezza dei tratti che delineano un volto che emerge dal caschetto dei capelli, il plastico disporsi dei corpi, conferiscono alle figure una pulsante vitalità.
Tenacemente proteso verso la «costruzione» di volumi sospesi nella luce, contraddistinti da una ironia che pervade le opere degli anni ‘70 dal linguaggio sciolto, vivace, cui la duttilità delle forme assicura una elegante e raffinata narrazione, si deve convenire che Alloati ha inteso scandire nello spazio l’armonia di figure allegoriche e simboliche, talora viste nella tenerezza di un modellato delicatamente lirico.
Del 1967 è la personale al Suermondt Museum di Aquisgrana, in collaborazione con l’Istituto di Cultura Italiana a Colonia, che acquista il Nudo in piedi. All’apertura della mostra il direttore E. G. Grimme evidenzia come «la sua patria è una terra in cui hanno vissuto Jacopo della Quercia, Donatello e Verrocchio. Pertanto, se si volesse misconoscere l’opera di Alloati, lo si definirebbe tradizionalista», viceversa la serie dei nudi «sfrutta la totalità dei possibili atteggiamenti propri del corpo umano (...) Anche qui, pertanto, viene a circoscriversi lo spazio della forma plastica: erede viva della migliore tradizione italiana».
Negli ultimi anni della sua esistenza, Alloati espone alla Fondazione Pagani a Castellanza e Luigi Carluccio su «Panorama» parla di «bassorilievi sui quali la vita si ramifica in forme araldiche, Alloati ha liberato una vena di fantasia forse troppo a lungo trattenuta. Appollaiata su alberelli preziosamente potati, sospesa su cespugli compatti, distesa su gondole bizzarre da Imbarco per Citera, graziosamente allungata su amache fatte di tralci di rose o gelsomini, una figuretta femminile nuda ritorna con belle acrobazie. Sembra rendere visibile un canto alla vita, alla gioia di vivere che trabocca come da una cornucopia».
Nelle «favole» e nei «sogni», della fase fiorita, si avverte il nascere di storie imperniate su sostegni arborei: reinvenzione di mitiche foreste surreali, di romantiche fanciulle, di una rappresentazione incantata che suggerisce una sottile inquietudine che s’insinua fra i pensieri.
Lo scavo della materia, la sequenza delle Naiadi e delle opere monumentali appartengono alla dimensione di una scultura che ha attraversato il tempo, alla storia di una Torino contrassegnata dalle personalità di Casorati e di Mila, di Spazzapan e dei «Sei», di Galvano scrittore e pittore, di Norberto Bobbio e del movimento MAC con Parisot e Biglione, di Giulio Da Milano e Chicco, sorprendente esponente di una cultura che annovera, tra le molte presenze, la magia di Cremona e Gorza, Paola Levi Montalcini, Martina, Mattia Moreni e Scroppo, Becchis poeta e artista raffinato, Terzolo e Piero Bargis letterato di valore e acuto interprete delle immagini che negli studi prendono vita e significato e rispondenza con la realtà e le intuizioni prima del declinare dei ricordi, di un’angoscia che s'insinua per cancellare memorie e incontri e visioni.
E in questa Torino, nella casa alle pendici della collina, Alloati ha modellato il ritratto di Ninetto e quello di Daphne Casorati, l’Adolescente in piedi del 1946 e Nunzia del 1944; la piena volumetria di Bagnante in piedi del 1945 e il Bozzetto di Naiade n. 7 esposto alla XXIV Biennale di Venezia, il Bozzetto di Naiade n. 10 del 1948, presentato all'VIII Quadriennale d’Arte di Roma e la deliziosa Maria accettata alla XXVII Biennale veneziana del 1954, il Nudo coricato n. 4 di raffinata e dolcissima bellezza.
La Composizione mistica del 1963, con il movimento del panneggio e della figura colta in un attimo di massima tensione, e la Figura seduta del 1969-1970 aprono il discorso su una ricerca floreale elegante, piena di tralci di rami e tronchi, con i capelli nel vento, mossi, rapiti in una favola che è quella di una scultura del tutto particolare come particolari sono le piastre finemente cesellate, simboliche, comprendenti immagini sacre e profane.
Scultura, quindi, per rinnovare lontane ascendenze classiche, per recuperare stagioni dense di impegni, per ritrovare forme scandite in un silenzio che sottende antiche consuetudini, armonie sopite, emozioni emergenti dalla materia e attraverso la materia si fanno interpreti di segrete passioni, di rivelazioni che hanno il fascino di una lezione che ancora oggi appare vera, intensa, pulsante.